Il
primo campanello d’allarme ufficiale è suonato una decina di anni
fa, nel 2006.
Anche
se ne parlavano già alla fine degli anni’80.
E’
accaduto in Giappone, il paese al mondo che più di ogni altra
nazione sul pianeta, segue le problematiche sociali della propria
popolazioni con grande cura e attenzione e interviene sempre
preventivamente.
Così
la loro cultura e tradizione.
Le
cifre parlano chiaro: in Giappone la disoccupazione è intorno
all’1%, i poveri sono lo 0,3% della popolazione, gli indigenti lo
0,7%. Non hanno spese militari, hanno il più grande disavanzo
pubblico del pianeta (equivalente a circa -235%) e sono la seconda
potenza economica della Terra come produzione di ricchezza, pari al
quintuplo di quella italiana; il più alto tasso di longevità
(87 anni per le femmine e 82 per i maschi) il più basso tasso di
natalità -record che condivide con l’Italia- e il più alto tasso
di suicidi, circa 3.500 all’anno.
Uno studio dell’istituto di sociologia dell’università di Tokyo, finanziato dalla fondazione studi sociali dell’imperatore, nel 2006 evidenziò e coniò il neologismo che oggi terrorizza il Giappone: “hikikomori”.
E’ una parola che agli italiani non dice nulla, ma molto presto, purtroppo, diventerà un termine familiare
Uno studio dell’istituto di sociologia dell’università di Tokyo, finanziato dalla fondazione studi sociali dell’imperatore, nel 2006 evidenziò e coniò il neologismo che oggi terrorizza il Giappone: “hikikomori”.
E’ una parola che agli italiani non dice nulla, ma molto presto, purtroppo, diventerà un termine familiare
Non
soltanto è finito su wikipedia, ma una richiesta ufficiale del
Giappone è arrivata prima all’Onu e poi come domanda formale
all’Oms, perchè venga rubricata sotto la voce “potenziale piaga
sociale che può annicchilire intere nazioni”.
“Hikikomori (引きこもり? letteralmente “stare in disparte, isolarsi”,[1] dalle parole hiku “tirare” e komoru “ritirarsi”[2]) è un termine giapponese usato per riferirsi a coloro che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, spesso cercando livelli estremi di isolamento e confinamento. Tali scelte sono causate da fattori personali e sociali di varia natura. Tra questi, la particolarità del contesto familiare in Giappone, caratterizzato dalla mancanza di una figura paterna e da un’eccessiva protettività materna, la grande pressione della società giapponese verso autorealizzazione e successo personale, cui l’individuo viene sottoposto fin dall’adolescenza. Il terminehikikomori si riferisce sia al fenomeno sociale in generale, sia a coloro che appartengono a questo gruppo sociale.
Il
percorso terapeutico, che può durare da pochi mesi a diversi anni,
consiste nel trattare la condizione come un disturbo mentale (con
sedute di psicoterapia e
assunzione di psicofarmaci)
oppure come problema disocializzazione,
stabilendo un contatto con i soggetti colpiti e cercando di
migliorarne la capacità di interagire. Il fenomeno, già presente in
Giappone dalla seconda metà degli anni
ottanta,
ha incominciato a diffondersi negli anni
duemila anche
negli Stati
Uniti e
in Europa
Dal 2009, in seguito all’uso massiccio di facebook e al dominio della comunicazione virtuale via web al posto di quella umana carnale nella vita reale, il fenomeno ha iniziato ad assumere chiari segnali di patologia sociale. In Giappone, il hikikomori, è aumentato dal 2009 al 2014 del 356%. E’ aumentato anche in Europa. Non esistono ancora dati ufficiali per quanto riguarda l’Italia, forse nessuno se ne occupa. Purtroppo, siamo in uno spaventoso ritardo culturale, sociale, imprenditoriale. Questo tipo di studi dovrebbe far parte al primo posto nella annuale legge di stabilità sotto la voce “ricerca e innovazione” come misura preventiva.
Secondo me, bisognerebbe cominciare a parlarne e ad alzare il livello dell’attenzione, prima che sia troppo tardi
Lo
fa da tempo il più famoso romanziere giapponese, Murakami.
I
suoi racconti, infatti, al di là dei paesaggi socio-onirici che lui
crea, hanno tutti in comune un aspetto caratteristico: i giovani
protagonisti, sia maschi che femmine, sono sempre soli, vivono da
soli, se possono non escono di casa.
Sono,
per l’appunto, vittime inconsapevoli del hikikomori.
Una
decina di giorni fa, la giornalista Lidia Baratta, ha pubblicato sul
quotidiano on-line linkiesta, un reportage proprio su questo tema,
visto che in questi giorni sia l’Onu che l’Oms che l’Unicef se
ne sta occupando con enorme preoccupazione
Ecco
il suo pezzo e il link di
riferimento:http://www.linkiesta.it/hikikomori-italia
Controllare
il profilo Facebook in piena notte, rinunciare a un aperitivo per
restare a chattare. Anche Internet, come l’alcol o la droga, può
creare dipendenza. Le uscite fuori casa diminuiscono fino a sparire,
le ore davanti a uno schermo aumentano. In Giappone, dove ne hanno
contati più di un milione, gli adolescenti ritirati sociali che
sostituiscono i rapporti diretti con quelli mediati da Internet si
chiamano “hikikomori”. Da noi dati certi non ne esistono. Le
ultime rilevazioni parlano di 240mila under 16, ma gli esperti dicono
che anche in Italia gli autoreclusi dipendenti dalla Rete sono in
continuo aumento.
La
finestra di una chat è molto più sicura e controllabile di un bar
in centro all’ora dell’aperitivo. Puoi decidere quando aprirla,
selezionare cosa mostrare di te ed essere brillante al momento
giusto, senza essere colto impreparato. La casa diventa un bunker
dove creare il proprio spazio protetto. E il computer connesso è
l’unica porta verso il mondo esterno per comunicare senza esporsi
troppo.
«Stiamo
registrando una crescita delle persone che si rivolgono a noi»,
spiega Valentina Di Liberto, sociologa e presidente
dellaCooperativa
Hikikomori di Milano.
«Soprattutto perché c’è una maggiore consapevolezza
delle dipendenze da Internet, in particolar modo da parte degli
insegnanti».
L’autoreclusione
parte dalla scuola, vissuta spesso come un allontanamento forzato dal
mondo del Web. Suonata la campanella, non c’è altra attività che
il ritiro in camera davanti a uno schermo. «Prima ci si ritira dalla
scuola, poi dalla scena sociale», spiega Matteo
Lancini,
psicologo e psicoterapeuta presidente della cooperativa
sociale Minotauro,
specializzata nei disturbi adolescenziali. Anche qui, negli ultimi
anni, le cure di adolescenti ritirati sociali e dipendenti dalla Rete
sono in continuo aumento. «Di solito l’abbandono scolastico
avviene nel biennio delle superiori, ma negli ultimi tempi viene
anticipato anche alle medie», precisa Lancini. Si comincia con mal
di pancia e mal di testa, per poi scoprire che sono solo sintomi
fisici per sfuggire da un ambiente scolastico vissuto come un incubo.
E in Italia il tasso di abbandono scolastico è ben sopra
la media europea: tra il 2011 e il 2014, 167mila ragazzi hanno
rinunciato al diploma.
Ritiro
sociale e dipendenza da Internet sono spesso interconnessi e si
sostengono reciprocamente. Dove sorge la dipendenza, aumenta il
ritiro sociale. Dove c’è il ritiro sociale, aumenta l’uso della
Rete come valvola di sfogo. Anche se, come Lancini precisa nel suo
libroAdolescenti
Navigati, «non
tutti i ritirati sociali riescono ad accedere alle esperienze offerte
dalla rete».
Un
campanello d’allarme è il restare connessi in Rete durante la
notte. «Questi ragazzi», spiega Valentina Di Liberto, «spesso
invertono il ritmo circadiano, restando svegli la notte e
dormendo il giorno, cominciando via via a evitare le relazioni reali,
lo sport o altre attività all’aperto». Reclusi nelle loro stanze,
frequentano il resto della casa quando tutti dormono. Per procurarsi
del cibo, o solo delle sigarette. Poi tornano nell’incubatrice
virtuale, dove tutto è più semplice e confortevole. «Non c’è un
confronto diretto, non c’è un impatto emotivo né i giudizi,
spesso spietati, dei compagni di classe», spiega Di Liberto. Tutto
in Rete sembra sotto controllo. «Ci si può scollegare quando si
vuole, decidere con chi connettersi, gestire la comunicazione. C’è
una forte sensazione di controlloche non c’è invece nella
vita reale».
Le
modalità di dipendenza dalla Rete sono diverse, in realtà. C’è
chi mantiene le relazioni solo online, chi usa i videogiochi senza
alcun contatto, chi naviga solitario alla ricerca di informazioni.
Qualcuno degli hikikomori, raccontano gli esperti, arriva a
rispondere solo se viene chiamato con il nickname che usa
in Rete e non con il vero nome. C’è chi si rinchiude per mesi, chi
per anni.
Tamaki
Saito è stato il primo psicoterapeuta a studiare il disturbo di
Hikikomori, evidenziando anche alcune analogie tra i ragazzi
giapponesi e i cosiddetti “mammoni italiani”. «Una delle
caratteristiche degli hikikomori è lo stretto rapporto con una madre
iperprotettiva», spiega Valentina Di Liberto. L’iperprotezione può
rendere il figlio narcisista e fragile allo stesso tempo. Se la
realtà non coincide con la sua idea di perfezione, c’è il rischio
del rifiuto e del ritiro.
Spesso
si parte da una sensazione di vergogna e inadeguatezza per
il proprio corpo, che porta anche a creare identità diverse da se
stessi in Rete. «Su Internet si diventa aggressivi o trasgressivi,
al contrario di quello che si è nella realtà», racconta Valentina
Di Liberto, «incanalando le emozioni represse che non si usano nella
vita reale. Si costruiscono personaggi che hanno anche connotati
fisici diversi da quelli della realtà».Ragazzi tanto silenziosi nel
mondo reale, quanto disinibiti in quello virtuale. Come Lucia, 13
anni, che viene scoperta dalla nonna davanti al suo portatile mentre
fotografa e posta in Rete l’unica parte secondo lei accettabile del
suo corpo. O come Stefano, pacato e timido dal vivo, che diventa
violento quando entra nel personaggio di un videogioco.
Ma
se la Rete «diventa la difesa che la mente sceglie di utilizzare»,
spiega Lancini nel suo libro, «significa innanzitutto che
l’adolescente sta cercando di non cedere a un dolore che, per
qualità e intensità potrebbe risultare inaccessibile». E in questo
caso, rispetto a chi si aliena anche dalla Rete, Internet è
un’àncora di salvezza. La Rete non è la causa del ritiro dalla
realtà, ma un tentativo estremo di restare agganciati al mondo
esterno, dice Lancini. Non a caso, c’è chi, navigatore solitario
senza contatti, comincia a guarire proprio aprendo un profilo su
Facebook.«I rischi più grandi da cui si salva un ragazzo immerso
nella Rete e ritirato socialmente possono essere dunque il suicidio e
il break down psicotico, ovvero la perdita della speranza
di riuscire a costruirsi un’identità e un ruolo sociale
presentabili al mondo esterno».
E
spesso proprio dalla Rete comincia la cura per i ritirati sociali.
Che per definizione non vogliono incontrare nessuno, tantomeno uno
psicologo stipendiato dai genitori. Non esiste un approccio univoco.
Alla cooperativa Hikikomori di Milano si fanno sedute di psicoterapia
individuale o di gruppo, e il Comune ha finanziato fino a giugno
anche un laboratorio di consulenza gratuita per otto adolescenti con
dipendenze da internet e dai videogiochi che include la consulenza ai
genitori. Anche la cooperativa Minotauro ha un consultorio gratuito
per chi non può permettersi sedute di psicoterapia per i propri
figli adolescenti in crisi. Le dipendenze da Internet, spiega
Lancini, non vengono trattate con un approccio di disintossicazione,
sottraendo smartphone, router e pc. Si parte spesso dai genitori, per
arrivare ai figli anche dopo molti mesi. E il primo contatto, anche
con lo psicologo, molto spesso avviene in chat.
Ma
Lidia Baratta non è la prima a parlarne.
Il
primo articolo sull’argomento (è considerato il primo in Europa) è
stato scritto da una giovane truccatrice italiana che se ne è andata
a vivere a Londra dove lavora come make up artist. Si chiama Rosita
Baiamonte e il suo pezzo risale al 1 Marzo del 2013, ben venticinque
mesi fa, apparso sul suo sito/blog che si chiama “abattoir”.
Lo
trovo un pezzo interessante. Un esempio sullo stato di salute del
nostro paese, sempre ghettizzato e distratto, a parlare solo e
soltanto di danaro e di partiti politici. La Baiamonte, allora, ci
aveva provato con più articoli, ma vista la totale indifferenza del
pubblico, ha poi lasciato perdere. Rimane il suo accredito, che io le
riconosco, per essere stata la prima curiosa ad affrontare
l’argomento in lingua italiana.
Ecco
il suo articolo di allora con relativo link
http://www.abattoir.it/2012/03/01/hikikomori-mi-dissolvo-2/
Hikikomori: mi dissolvo
Pubblicato
il 1
marzo 2012 da Rosita
Baiamonte
Il
sol levante è portatore di novità, di tecnologie avanzate, di una
quantità di suggestioni figlie di una cultura diametralmente opposta
a quella occidentale; in particolare, il Giappone è una terra
affascinante e per certi versi incomprensibile a noi poveri
occidentali.
Ad
esempio, è notizia recente quella di una donna giapponese invalida
che ha rifiutato di farsi pagare una pensione d’invalidità dallo
stato. Strano, assurdo, incredibile.
Sì,
per noi che viviamo in un mondo popolato da falsi invalidi con
pensioni d’oro, è un bel po’ strano.
Tuttavia,
il Giappone è sempre fonte d’ispirazione, sia nel bene che ne
male.
Nasce
in Giappone il fenomeno Hikikomori, che è a tutti gli effetti
una sindrome che colpisce soprattutto gli adolescenti, un fenomeno
che, fino a qualche anno fa, sembrava non aver colpito l’Italia, ma
che invece negli ultimi anni pare essere sbarcato anche da noi, quasi
fosse una moda.
L’hikikomori è
un ragazzo che a un certo punto della sua esistenza decide di
isolarsi dal mondo e dalla realtà che lo circonda, si chiude in
camera e lì passa le sue giornate. La camera diventa il luogo
fisico, dove egli conduce la sua vita, luogo che a poco a poco si
ammassa di oggetti, di resti di cibo, di sporcizia, di polvere, quasi
come se gli oggetti diventassero essi stessi hikikomori e non
potessero più uscire da quel luogo, così come chi li possiede.
Oggetti che, in qualche modo, lo riportano in quella realtà che egli
vive e osserva solo attraverso un computer.
Egli
vive di notte, di giorno oscura le finestre, odia la luce. La notte
si rifugia nei social network, nei forum, dove incontra altri
hikkikomori come lui, creando quasi una rete. Un po’ come accadeva
qualche anno fa (ma forse accade ancora), con le adepte di Ana, la
dea dell’anoressia, fenomeno quanto mai preoccupante che vedeva
coinvolte centinaia di ragazze che, da un giorno all’altro, avevano
messo su una rete di blog dove si scambiavano consigli su come
dimagrire in fretta e su come essere sempre fedeli ad Ana (e guai a
sgarrare!).
Alienante.
L’ikikomori
trasferisce nello spazio angusto della sua camera tutta la forza e
l’onnipotenza che non riesce ad avere fuori da lì, nella vita
vera, quasi come se vivesse dentro un videogioco dove egli è l’eroe,
e in quello spazio l’hikkikomori crea, inventa, scrive, produce.
In
Giappone il fenomeno è in fortissima espansione; si contano già più
di un milione di casi.
Uscire
dall’isolamento è difficile se non impossibile, curare dei
soggetti in hikikomori è un’ardua impresa, perché rifiutano di
lasciare il loro habitat e nessuno riesce a raggiungerli. Inoltre,
aspetto da non trascurare è la non volontà di tornare a
un’esistenza normale, perché la loro è una scelta, è un’auto
esclusione dalla vita.
L’hikkikomori
smette di avere bisogni pratici, non si cura di sé, del suo aspetto
fisico, il suo unico bisogno è quello di espandersi mentalmente
attraverso la rete, attraverso la scrittura, la pittura, la
creatività.
La
cosa realmente preoccupante di questo fenomeno è che l’hikkikomori
finisce con l’appassire, perché si nega al sole, alla luce, ai
rapporti sociali, e piano piano, deperisce e muore.
Sì,
l’hikikomori è un alienato, non per natura, ma per scelta, sebbene
esistano delle cause scatenanti che portano il soggetto a voler
fuggire dalla realtà; ad esempio, soggetti che per natura molto
timidi o che sono costantemente oggetto di scherno da parte dei
coetanei sviluppano una forma di repulsione e di rifiuto verso quella
società che, di fatto, ride di lui.
Tuttavia,
non bisogna relegare il fenomeno a semplice apatia o forma acuta di
timidezza. È qualcosa di più, è come un morbo che pian piano si
espande a macchia d’olio e che sta coinvolgendo sempre più paesi,
compresa l’Italia, anche se in forme diverse.
Secondo
alcuni psicoterapeuti, come la Dott. Carla Ricci, autrice del libro:
“Hikikomori: adolescenti, volontà di reclusioni”, il fenomeno in
Italia ha preso una piega diversa e presenta dei lati meno feroci, ad
esempio l’isolamento non è quasi mai totale: gli hikikomori
italiani, a differenza dei giapponesi, accettano di consumare i pasti
coi genitori, e di vedere, di tanto in tanto, un amico con cui
passare delle ore. Questo è dovuto anche a una differente
organizzazione della società e della famiglia rispetto al Giappone,
dove il fenomeno è visto dalla società come un’onta e qualcosa da
nascondere, per cui le famiglie non se ne preoccupano e preferiscono,
anzi, agevolare l’esclusione dell’adolescente nel tentativo di
nasconderlo al mondo.
Tuttavia
il fenomeno italiano, pur essendo ancora marginale, desta già
preoccupazione; sempre più genitori lamentano nei loro figli una
sorta di apatia e di disinteresse verso tutto, per cui sempre più
spesso gli adolescenti vengono affidati alle cure di psicoterapeuti e
questo, in qualche modo, fa da argine a una degenerazione della
patologia.
Quanti
di noi non hanno attorno amici che passano la maggior parte della
loro vita davanti a un pc? Che se gli chiedi: ehi, usciamo a farci
una pizza? Ti rispondono: no, devo ultimare il livello, di non so
quale diavolo di gioco di ruolo! Ce ne preoccupiamo? Avvertiamo che
anche noi spesso ci lasciamo andare a momenti di tremenda apatia, che
ci risucchia le energie e ci spegne?
Ho
idea che questo fenomeno sia lontano dall’arrestarsi, magari non
sfocerà mai nelle forme di totale reclusione, ma sicuramente le
nuove generazioni si stanno sempre più alienando, e sempre più
spesso si rifugiano in un mondo a parte, dove si sentono eroi,
insuperabili, onnipotenti, anche se in realtà, sono fragili e
indifesi.
E
voi che ne pensate? Credete sia la solita moda esportata dal Giappone
o è qualcosa che accomuna tutti gli adolescenti del mondo a
prescindere dal paese? E credete che la tecnologia abbia esacerbato
il fenomeno?
Fonte: libero-pensiero.net
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